Nato il ventun gennaio 1924 a Montesano sulla Marcellana, nell’Appennino salernitano, Francesco, primo di quattro figli, non tarderà a rivelare precoci doti intellettuali, genio musicale ed una particolare attitudine alla vita spirituale. In quegli stessi anni, la sua famiglia si trasferisce in Salento, presso la casa paterna.
Francesco vivrà così la sua infanzia a Diso in Provincia di Lecce, con il Padre Raffaele, la madre Maria Serafina, le due sorelle Maria e Teresa. Nella casa di Via Paolo De Blasi, vive anche il nonno paterno, sarto, il quale si chiama anch’egli Francesco.
[Essendo quest’ultimo figlio di Nicolina De Blasi, tale indizio anagrafico, insieme con il nome di Francesco, segnalano la discendenza della famiglia Coluccia dal medesimo personaggio storico Paolo De Blasi (che nel Seicento aveva preso il nome di Frate Francesco), vissuto a Diso tre secoli prima, al quale è appunto intestata la Via ("Paolo De Blasi") dove sorge la casa della famiglia Coluccia. La ragione per cui la storia locale ricorda Paolo De Blasi, proveniente da antica e nobile famiglia, è data dal fatto che, avendo egli abbracciato la vita religiosa francescana con il nome di Frate Francesco, nel 1600, aveva anche provveduto a fondare, proprio nel suo paese di Diso, un Convento di Padri Francescani Cappuccini, edificando altresì, accanto al Convento, una Chiesa dedicata a San Francesco d’Assisi].
[Sebbene Don Francesco Coluccia non ne abbia mai parlato esplicitamente, i documenti manoscritti da lui stesso elaborati dimostrano che egli fosse perfettamente consapevole della propria discendenza dal noto Paolo De Blasi (Frate Francesco); tale consapevolezza è attestata dall'albero genealogico che proprio Don Francesco ha ricostruito, in un documento manoscritto di tre pagine che sarà poi rinvenuto postumo tra i suoi manoscritti. Tale albero genealogico dimostra la parentela intercorrente tra le famiglie De Blasi, Coluccia e Stasi. (Successivamente anche la famiglia Bottazzi si imparenta con un ramo della famiglia Stasi). Il fatto che all'inizio dell'Ottocento, i coniugi Nicolina De Blasi e Filippo Coluccia abbiano voluto conferire il nome di Francesco al proprio figlio primogenito, che sarà poi il nonno paterno del nostro Don Francesco (nato nel 1924), dimostra la particolare venerazione che le famiglie De Blasi e Coluccia nutrivano per la figura del Frate francescano, Paolo De Blasi, il quale nel Seicento aveva preso il nome di Frate Francesco, quando, abbracciata la vita religiosa provvide ad edificare il Convento dei Padri Cappuccini di Diso. Da queste ricostruzioni storiografiche è possibile inoltre desumere che la casa in cui lo stesso Paolo De Blasi aveva vissuto negli ultimi decenni del Cinquecento, prima della fondazione del Convento francescano edificato nel 1600, doveva essere proprio la medesima abitazione di Diso in cui poi vivrà la famiglia Coluccia, discendente dall'unione tra Filippo Coluccia e Nicolina De Blasi; infatti, tale abitazione sorge proprio in quella strada che oggi è denominata "Via Paolo De Blasi", al numero civico 10].
[Gioverà inoltre rilevare che, nella medesima epoca in cui Paolo De Blasi edificava il Convento francescano di Diso, un altro sacerdote, questa volta secolare, il Parroco della vicina cittadina di Marittima Don Domenico Coluccia provvedeva a costruire, proprio a Marittima, il Santuario dedicato a Santa Maria di Costantinopoli (1610) e l’attiguo Convento francescano. La contestualità della fondazione di queste quattro costruzioni religiose (due conventi francescani, con altrettante chiese annesse) rimarca in maniera evidente la volontà e la capacità di ricostruzione esperita dalle popolazioni civili e dalle comunità cristiane di Diso e di Marittima, dopo le distruzioni e gli eccidi perpetrati dalle invasioni turche nel 1537 e nel 1573.
Lo zio di Don Domencio, che era stato il precedente Parroco di Marittima e che si chiamava Don Girolamo Coluccia, era stato testimone diretto delle devastazioni e degli stermini perpetrati dagli invasori, a cui egli stesso era sopravvissuto nel 1573. Proprio il Parroco precedente, Don Girolamo Coluccia, zio di Don Domenico, aveva dovuto riedificare la Chiesa parrocchiale di San Vitale Martire in Marittima.
Sul punto è possibile consultare quanto ricostruito dallo storico Mons. Vittorio Boccadamo nella sua preziosa opera dedicata alla storia della cittadina di Marittima:
«Don Girolamo Coluccia -scrive Boccadamo- fu nominato parroco dal vescovo di Castro Luca Antonio Resta (1565-1578) e venne poi confermato da mons. Mario Tarallo con Bolla del 18 dicembre 1589. Fu testimone dell'incursione dei turchi del 1573 e dovette rifare la chiesa parrocchiale, che in quella circostanza fu bruciata e subì gravi danni. A lui si deve il primo registro dei battesimi (1582). Nel 1604, forse a causa delle sua tarda età, rinunziò alla parrocchia. Morì il 18 marzo 1605».
«Don Domenico Coluccia (1604-1635 -periodo del parrocato -ndr-) fu nipote di Don Girolamo Coluccia, alla cui ripresa di possesso del beneficio parrocchiale nel 1589 fu presente come testimone. A lui risalgono i più antichi registri dei defunti (1604), dei matrimoni (1605) e dei cresimati (1606). Secondo la tradizione, fu proprio Don Domenico il parroco di Marittima che nelle vicinanze del paese rinvenne l'affresco della Madonna di Costantinopoli, a lui indicato da una luce misteriosa. Per celebrare l'evento, il 14 settembre 1610, si diede inizio alla costruzione del piccolo santuario dedicato alla Madonna, come egli stesso annotò nei suoi registri parrocchiali. A questo parroco è intitolata una strada del paese»].
Sempre a Diso, negli anni Trenta del Novecento, il bambino Francesco Coluccia frequenterà la locale Scuola elementare, il cui primo anno è gestito dalle suore. La sua famiglia è molto religiosa e prega assiduamente. La sera è abitudine recitare il Rosario dedicato alla Madre del Redentore. All’età di sei anni perde la madre Serafina, a causa dell’epidemia di tubercolosi, che falcia le popolazioni più povere ed indifese. All’epoca, al fine di evitare il contagio, le comunità più povere e prive di difese contro le epidemie, usavano ardere nel fuoco gli effetti personali di coloro che erano deceduti a causa della malattia. Dopo aver perso la madre, quindi, il bambino Francesco fu quindi costretto a subire anche questa ulteriore prova dolorosa, consistente nel rogo degli effetti personali della defunta.
Nel periodo della malattia della madre, intorno al 1930, per sottrarlo al contagio, il bambino viene ricoverato presso la famiglia del sacerdote e filosofo Pietrantonio Stasi, che aveva svolto il servizio di Parroco per lunghi anni presso la Comunità di Diso ed era infine scomparso nel 1922. La famiglia Coluccia era infatti imparentata con l’illustre e nobile famiglia degli Stasi, che dovevano la loro ricchezza alla proprietà terriera, ma tra cui non mancano anche sensibili religiosi e colti umanisti, come appunto Pietrantonio. La nonna paterna di Don Francesco si chiamava Concepita Stasi, la quale presso l’anagrafe comunale risulta registrata semplicemente come “contadina”. All’interno del palazzo degli Stasi, Francesco trova e legge alcune opere manoscritte lasciate dall’illustre sacerdote filosofo e poeta Pietrantonio Stasi, nei confronti della cui figura intellettuale comincerà proprio in quegli anni a nutrire una particolare venerazione.
Si deve proprio al padre di Francesco (il brigadiere Raffale) la realizzazione in Diso delle prime fotografie, le quali ci hanno tramandato alcune immagini dell’epoca insieme con i volti di alcuni personaggi, come ad esempio quella dello stesso Filosofo Arciprete Pietrantanio Stasi. L’hobby della fotografia consente quindi a Raffaele, il padre di Francesco, di realizzare e sviluppare le prime fotografie di famiglia che ritraggono, nel volto di Francesco, lo sguardo terso di un bambino perspicace e sereno che, pur provato dalla sofferenza, conserva tuttavia una serafica letizia, tanto da aver già deciso si consacrare la propria vita a Dio.
Per premiare il suo rendimento scolastico e festeggiare il conseguimento della licenza elementare, il padre lo accompagna nel capoluogo di Lecce (che da Diso dista circa Km 50), con i poveri mezzi di locomozione dell’epoca, per assistere alla proiezione del film “I dieci comandamenti”.
Nel 1935 Francesco entra nel Seminario arcivescovile di Otranto, dedicandosi così allo studio delle materie classiche, alla preghiera, alla meditazione ed all’ascesi spirituale, in un contesto formativo di vita comunitaria, su cui pesano le privazioni causate dalla guerra.
Durante gli anni della formazione in Seminario, Francesco seguirà, quindi, le prescrizioni di un insegnamento qualificato ed intransigente, che lo porterà a sviluppare una brillante capacità logica, ad acquisire una grande cultura umanistica e ad esercitare una grande capacità mnemonica, che gli consentirà di memorizzare il contenuto di innumerevoli testi di opere letterarie, insieme ovviamente delle stesse Sacre Scritture in lingua latina. Coltiva anche interessi musicali e canori. Conduce una vita povera e rigorosa, fortificandosi nella fede e nel fisico. La fede gli permette di superare anche il grave lutto della perdita delle due sorelle colpite, giovanissime, anch’esse dalla tubercolosi. Praticherà inoltre per molti anni lo sport del nuoto, divenendo un abile nuotatore.
Nel 1944, quando le sorelle, Maria e Teresa, si ammalano di tubercolosi, Francesco si trova in Seminario. Nel corso dell’estate, quando il seminario è chiuso, per evitare il contagio, è nuovamente costretto a trovare ricovero presso la residenza della famiglia Stasi, dove può contare sull’ospitalità delle zie Addolorata e Filomena Stasi.
Alla scomparsa delle sorelle, nel 1944, si accompagna nuovamente il tragico rituale del rogo degli effetti personali delle defunte. Il ricordo di questi eventi tornerà in seguito nella memoria della famiglia Coluccia divenendo un elemento della cultura della “Resistenza civile” e della liberazione, che -come giustamente rileva lo storico cattolico Pietro Scoppola- ha segnato la capacità di ricostruzione del Popolo italiano dopo le tristi esperienze della povertà e delle privazioni causate dalla guerra e dal regime totalitario fascista.
Pur trascorrendo in Seminario la tragica epoca del ventennio fascista, Francesco Coluccia si trova tuttavia a Diso presso la casa paterna, quando assiste al fermo del padre, Raffaele. Carabiniere in pensione, quest’ultimo si fa perseguire dalle autorità a motivo di alcune dure lettere di rimostranza, scritte da lui stesso, per protestare contro le ingiuste tassazioni imposte dal locale podestà fascista ai danni dei concittadini agricoltori. Raffaele infatti, abbonato alla “Gazzetta Ufficiale” aveva riscontrato che le angherie e i balzelli imposti dalle autorità locali non rispettavano i limiti imposti dalle disposizioni di legge. [Alcune testimonianze raccolte tra anziane contadine segnalano, inoltre, le discutibili condizioni di lavoro affrontate dalle lavoranti nei locali magazzini di tabacco. È quindi ipotizzabile che le lettere inviate da Raffaele Coluccia potessero contestare al podestà fascista del paese anche il trattamento riservato da alcune donne cape-operaie ( "padronali", in dialetto denominate "mesce") nei confronti di queste lavoranti. Se questa ipotesi fosse fondata, si potrebbe meglio spiegare la reazione del podestà del paese, il quale pare fosse titolare almeno di un immobile adibito a magazzino di tabacco].
È interessante notare come il padre di Francesco, Raffaele Coluccia, ritiratosi in pensione dopo aver prestato per decenni servizio presso l’Arma dei Carabinieri, abbia poi deciso di protestare contro le ingiustizie del regime, sino a provocare la reazione degli esponenti dell’autorità locale, tanto da lasciare impresso nella memoria del figlio Francesco il ricordo del suo prelevamento forzato da casa ad opera proprio dei suoi ex commilitoni
Nel gennaio 1946, sempre a motivo di queste scelte coraggiose compiute dal padre, Francesco riceverà in dono da un anziano prelato di Potenza un libro di meditazioni spirituali in segno di riconoscenza per la testimonianza resa da Raffaele nel corso di un delicato processo penale, conclusosi con l’assoluzione degli imputati.
Nel 1944 si spegne la Maestra Addolorata Stasi, la quale lascerà una modesta eredità di terreni alla Famiglia Coluccia, che dovrà essere suddivisa tra le famiglie dei tre fratelli: Raffaele (che ha due figli), Alfonso (che ha 5 figli) e Maria (prevalentemente usufruttuaria).
Tuttavia, questa eredità immobiliare lasciata da Addolorata Stasi perverrà effettivamente alla famiglia di Raffaele Coluccia solo nel 1964, a seguito della scomparsa di sua sorella Maria, la quale ne aveva nel frattempo detenuto l’usufrutto. Sarà proprio il conseguimento di questa eredità, condivisa con il fratello e con i cugini, che permetterà Don Francesco di accedere da titolare alla medesima residenza della famiglia Stasi, presso cui egli aveva trovato rifugio negli anni dell’infanzia e della giovinezza. Il libero accesso al Palazzo Stasi gli consentirà di salvare le opere ed i documenti manoscritti di Pietrantonio Stasi. Molte opere significative gli erano comunque state consegnate da Addolorata Stasi quando era ancora in vita. Tale opera di recupero e di salvataggio di documenti storiografici ha permesso di conservare diversi documenti storici su cui si applicano le ricerche degli storici locali; si tratta -tra l’altro- delle seguenti documentazioni: 1) l’epistolario redatto dallo scienziato Filippo Bottazzi (tra il 1897 ed il 1922) ed indirizzato allo stesso Arciprete Pietrantonio Stasi; 2) i libri di filosofia pubblicati da quest’ultimo e le poesie inedite che questi ha dedicato alla Madre del Redentore; 3) la pergamena di Laurea in Filosofia che questi aveva ricevuto honoris causa da parte di una prestigiosa Università statunitense; 4) il progetto di ristrutturazione del campanile della chiesa parrocchiale di Diso, del 1901, ed innumerevoli altre testimonianze storiche.
A tale raccolta di documenti si aggiungono le fotografie realizzate all’epoca dal padre di Don Francesco, in particolare il ritratto dell’Arciprete Curato Pietrantonio Stasi.
Tra i documenti recuperati da Don Francesco, particolare rilievo per la storiografia locale rivestono poi le raccolte dei “Bollettini del Santuario della Madonna di Pompei di Castro Marina”, le cui notizie permettono di ricostruire la storia locale dell’epoca ottocentesca e del primo novecento (1898-1943).
Sul punto sono lieto di registrare la gratitudine espressa nel 2005 nei confronti di Don Francesco, da parte del periodico “L’Eco del Santuario”, mediante l’articolo redatto dallo storico prof. Filippo Cerfeda:
«Un prezioso contributo -scrive Cerfeda- lo aveva già dato Don Francesco qualche anno fa, mettendo a disposizione l’unica serie originale completa del Bollettino del Santuario della Madonna di Pompei di Castro Marina. Ma come Don Francesco era in possesso dell’intera opera mariana?
Don Francesco aveva ricevuto -rivela sempre Cerfeda- tutto quel materiale da una sua parente Stasi Addolorata (1861-1944), cugina dell’arciprete Stasi, parroco di Diso dal 1874 al 1922. Di professione insegnante della scuola primaria, la maestra Addolorata continuò ad insegnare anche dopo il suo pensionamento, ospitando i bambini nella sua casa privata, dove viveva con una sorella [Filomena -NdR-] e l’anziano Don PietroAntonio. Educò diverse generazioni di scolari non solo di Diso ma anche quelli provenienti dai paesi vicini. Fortemente religiosa, era particolarmente devota alla Madonna di Pompei e raccoglieva diligentemente i bollettini pubblicati dal Santuario della Madonna di Pompei in Castro Marina».
Don Francesco ha quindi lungamente conservato e studiato questi documenti storici in vista di una loro pubblicazione. A tale fine, Don Francesco ha consentito che tale documentazione fosse consultata da parte del nipote Raffaele Coluccia (che oggi scrive questa biografia) e da parte dello storico Filippo Cerfeda.
[Purtroppo, dopo il martirio subito da Don Francesco nel 2005, alcuni documenti di ricerca storiografica sono stati oggetto di dispersioni poco edificanti, che appaiono tese a sottrarre a Don Francesco il merito ed il prestigio che occorre invece giustamente riconoscergli. Tali avversità, che il nipote Raffaele sta affrontando, appaiono inoltre tese a contrastare la stessa cultura religiosa alla quale Don Francesco ha dedicato invece la propria esistenza sino a conseguire la santità presso Dio e presso i suoi estimatori. La repressione che, nella nostra società contemporanea, colpisce ogni testimonianza autentica di santità, sembra diretta anche ad ostacolare ogni valida proposta di riforma della Chiesa e della società in senso evangelico. Ne discende che, proprio il martirio a cui la testimonianza di Don Francesco viene sottoposta da quanti intendono sminuire l’importanza della ricerca teologica e della dimensione spirituale nella vita umana, finisce per deporre a favore del riconoscimento della sua beatitudine e della sua santità].
Dopo aver perfezionato gli studi di Teologia presso il Seminario Regionale di Molfetta (Bari), nel 1947, a soli 23 anni, Don Francesco Coluccia viene ordinato Sacerdote da S.E. Mons. Cornelio Sebastiano Cuccarollo, Cappuccino Arcivescovo di Otranto (1930-1952). Celebrerà quindi la prima Eucarestia, presso la Chiesa Parrocchiale di Diso, intitolata ai Santi apostoli Filippo e Giacomo. In questa occasione riceverà dal padre, Raffaele, il dono di un calice per le Celebrazioni eucaristiche.
Si dedica quindi per qualche anno all’insegnamento di materie letterarie presso il Seminario diocesano e dopo aver maturato un'esperienza pastorale presso diverse Comunità parrocchiali salentine, riceve l’incarico di guidare la Parrocchia di Sant’Andrea Apostolo in Andrano (Lecce). Svolgerà quindi questo servizio per oltre mezzo secolo, insegnando nel contempo Religione agli studenti della Scuola Media Statale della stessa Cittadina salentina.
In questi anni di vita parrocchiale, significative divengono le visite pastorali compiute ad Andrano nel 1966 dall’Arcivescovo Mons. Gaetano Pollio e, negli anni Settanta ed Ottanta, gli incontri con Don Tonino Bello, all’epoca Parroco nella vicina Città di Tricase e futuro Vescovo di Molfetta e Presidente di Pax Christi. La Comunità religiosa andranese giova anche dell’assistenza di numerosi Sacerdoti esterni inviatati da Don Francesco a celebrare ed a predicare ad Andrano in occasione di particolari Solennità. Condotta per mano dalla guida spirituale di Don Francesco, la Comunità parrocchiale cresce e progredisce, esprimendo nuovi e numerosi sacerdoti, tanto che, nel 1992 il pontefice Giovanni Paolo II gli conferisce il titolo di Monsignore e Cappellano di Sua Santità. Riconoscimento che lo onora ma che non lo insuperbisce e a cui egli tuttavia non si affeziona.
Autore di accurate, documentate ed innovative ricerche storiche sulla Parrocchia e sulla Città di Andrano, Don Francesco ha cominciato a pubblicare alcune sue ricostruzioni storiche con il libro “Parleranno le pietre”. Instancabile lavoratore ed incrollabile testimone della Verità evangelica, ha voluto incarnare sino al martirio l’amore infinito che Dio nutre per le sue creature. Il martirio di Don Francesco, compiutosi ad imitazione di Cristo, il nove Febbraio 2005, suggerisce la proclamazione del Vangelo secondo san Giovanni e segnala in tal modo la rivelazione della sua santità e l’annuncio della sua resurrezione. “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Giovanni 13,1).
RICERCHE STORICHE E LIBRI PUBBLICATI
La pubblicazione edita da Don Francesco nel 2002, dal titolo «L’antica Chiesa Parrocchiale di Andrano. Fondamenti e documenti per una storia dell’antica Matrice», costituisce un estratto del libro intitolato: «Andrano e Castiglione d’Otranto nella storia del sud Salento», edito nel 2002 da Pubbligarf, Alessano (Lecce). La nota editoria, qui di seguito riproposta, che accompagna tale pubblicazione storiografica sintetizza il percorso culturale e sacerdotale di Don Francesco.
«Monsignore, nato a Montesano sulla Marcellana (SA) il 21 gennaio 1924, ha compiuto gli studi ginnasiali nel Seminario arcivescovile di Otranto e quelli liceali e teologici nel pontificio Seminario regionale di Molfetta. È stato ordinato sacerdote sa S. Ecc. mons. Cornelio Sebastiano Cuccarollo arcivescovo di Otranto, nella chiesa parrocchiale di Diso (ottobre 1947). Ha insegnato nel Seminario arcivescovile di Otranto; ha prestato la sua attività pastorale nelle Parrocchie di Collepasso, Serrano e Depressa prima di essere assegnato ad Andrano, dove ha esercitato il suo ministero per 47 anni. Dietro sollecitazione di S. Ecc. Mons. Francesco Cacucci, ha pubblicato parte del frutto delle sue ricerche su Andrano nel volume Parleranno le pietre…Testimonianze di vita andranese (Bleve ed. 1998). Nel 2002 gli è stato conferito il premio nazionale “Foglia di tabacco” istituito dal Comune di Andrano.
LA RESISTENZA CIVILE DI MONS. FRANCESCO COLUCCIA
Posso solo accennare in queste poche pagine alla immane opera di “Resistenza civile” di cui mio zio Don Francesco Coluccia è stato coraggioso protagonista e testimone, durante i duri anni del fascismo e della guerra. Questa capacità di Resistenza alle avversità ed alla povertà, espressa dalla cultura religiosa a cui Francesco Coluccia aderisce, merita una ben più completa trattazione, che cercherò di approntare nelle prossime pubblicazioni che saranno a Lui dedicate.
Mediante queste ricerche biografiche comincio tuttavia a ricordare la sua capacità di contribuire a quella “Resistenza civile” e a quella “Cultura della liberazione” che lo storico Pietro Scoppola ha individuato come la parte migliore della Comunità nazionale italiana. Questa componente virtuosa della Comunità nazionale, (nella quale largo eco hanno -secondo Scoppola- la cultura cristiana e la Chiesa cattolica), ha saputo dimostrare, nel periodo più difficile della nostra storia recente (tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del Novecento), di saper affrontare e resistere alle vessazioni ed alle privazioni determinate dalla povertà, dalla guerra e dalla dittatura totalitaria, ma ha saputo altresì esprimere la capacità di ricostruire la Comunità nazionale dopo la disfatta bellica, del 1943-1945. Proprio tale capacità di ricostruzione, espressa in Italia nel secondo dopoguerra anche dalla cultura cristiana, costituisce -secondo Scoppola- il fondamento della democrazia moderna ed hanno permesso l’elaborazione della Costituzione della Repubblica Italiana, contraddistinta da enunciati e da principi di eguaglianza, libertà, solidarietà, responsabilità e democraticità.
Francesco Coluccia partecipa e contribuisce, con il suo coraggio, con il suo studio, con il suo lavoro, con la sua missione evangelica e con la sua capacità di coltivare significative relazioni affettive e sociali, a tale processo di Resistenza civile, sul quale si fonda la democrazia moderna non solo italiana ma anche europea ed internazionale. La sua opera di ricerca storica, cominciata già in tenera età, quando, ricoverato presso l’abitazione della famiglia Stasi di Diso, è riuscito a studiare e successivamente a recuperare importati documenti storici come le opere del filosofo e sacerdote Petrantonio Stasi (1839-1922) e l’epistolario a questi indirizzato dal noto scienziato Filippo Bottazzi (1867-1941). La ricerca storica viene quindi da me incentrata sui documenti storiografici, soprattutto su quelli che Egli stesso aveva recuperato e salvato.
La sua capacità di risorgere, dopo le vicende familiari più dolorose che avevano colpito la sua infanzia e la sua giovinezza, con la tragica perdita della madre e delle sorelle, falciate dalle epidemie di tubercolosi, costituisce un coraggioso e fulgido esempio offerto a ciascuno di noi, suoi estimatori e sue estimatrici, che possiamo in tal modo imparare da Lui a coltivare la “Resistenza civile” e la “Cultura della liberazione”, attraverso lo studio delle sue opere teologiche, pastorali e storiche, nonché attraverso la conoscenza della sua vita e persino mediante la venerazione della sua figura religiosa. Imparando così da Lui a coltivare la dimensione della ricerca religiosa e teologica, ricerca che risulta fondamentale per il pieno sviluppo della persona umana ma anche il superamento delle idolatrie alienanti e dell’egocentrismo individualista, possiamo effettivamente scoprire che in Don Francesco la “Resistenza civile” diviene “Resistenza religiosa e spirituale”.
Per meglio chiarire cosa intendo con le espressioni “Resistenza civile” e “Cultura della liberazione”, preferisco lasciare la parola allo storico Pietro Scoppola, alle cui opere storiografiche faccio rinvio. Preciso semplicemente che l’esperienza religiosa e umana di Mons Francesco Coluccia si situa a pieno titolo nel fenomeno sociale e culturale della “Resistenza civile”, che si combatte. contro le avversità più difficili che hanno minato la nostra popolazione salentina e nazionale nell’Età contemporanea. La esperienza di vita religiosa ed umana espressa da Don Francesco esprime quella forza e quella capacità di ricostruzione di cui la società laica e la Chiesa cattolica hanno particolare bisogno, tanto più in quanto tale forza morale costituisce il segno del connubio tra la povertà e la fragilità umana e la potenza della grazia divina che consente ai Santi di elevare la propria vita verso Dio.
Posso quindi concludere con le stesse espressioni di felicità, con cui Don Francesco ha saputo spiegare il significato che il Cristo ha saputo conferire alla propria esistenza:
«Egli non si è fatto uomo per insegnare come si possa star bene sulla terra, ma come, qualunque sia la condizione terrena, si possa conquistare, grazie ai valori dello Spirito [Dio, il regno di Dio], una felicità al riparo da ogni insidia degli uomini e del tempo». [Mons. Francesco Coluccia, Omelia della Quarta Domenica del Tempo Ordinario -Anno A- 2005].
LO STORICO PIETRO SCOPPOLA:
LA RESISTENZA CIVILE CONTRO IL NAZI-FASCISMO E LA CAPACITÀ DI RICOSTRUIRE LA CIVILTÀ SU BASI CULTURALI E RELIGIOSE PACIFICHE E NON VIOLENTE
«La lotta armata al fascismo -scrive Pietro Scoppola- inevitabile e necessaria come risposta alla violenza, ha contribuito ad abbattere il fascismo, ma non poteva superarlo: il fascismo doveva essere superato nelle coscienze, sul piano morale. L’esperienza della resistenza civile, nelle varie forme che ha assunto, non è stata meno importante della resistenza armata; e nel campo della resistenza civile un ruolo essenziale, come già si è accennato, è stato svolto dalla Chiesa. La pietà cristiana, la pietà per le vittime della guerra e per gli stessi sconfitti, più della lotta armata, ha vinto il fascismo nelle coscienze, ha reso possibile il suo superamento e ha contribuito a porre le basi morali delle democrazia. Il sentimento e la tradizione religiosa popolare hanno ridato spazio a un’etica collettiva. Il fenomeno è di grande importanza per comprendere la fase successiva di egemonia cattolica nel paese»[1].
Sul punto, si possono confrontare le seguenti opere:
P. Scoppola, “La repubblica dei partiti”, Ed. Il Mulino, 1997, pag. 106.
P. Scoppola, “La Costituzione contesa”, Ed. Einaudi, 1998.
PRESENTAZIONE DELL’EPISTOLARIO AUTOGRAFO
DI FILIPPO BOTTAZZI INDIRIZZATO A PIETRANTONIO STASI
Vengono presentati, mediante questa prima pubblicazione sulla Resistenza civile e culturale di Mons. Francesco Coluccia, anche alcuni documenti epistolari manoscritti, da Lui stesso salvati a Diso presso il palazzo della Famiglia Stasi. Tale recupero va datato tra il 1944 e il 1964.
Anche questa operazione culturale, volta al recupero ed alla valorizzazione dei documenti storiografici e delle testimonianze storiche salentine, si inserisce nella più vasta attività di Resitenza civile, a cui Mons Francesco Coluccia ha voluto contribuire, la quale è tesa alla ricostruzione della cultura di un Popolo, in particolare di quello salentino, dei suoi vissuti e delle sue speranze. La cultura della Resistenza civile tende infatti a superare le avversità imposte dai regimi totalitari, attraverso la promozione della persona umana, attraverso la conoscenza storica, la coscienza della propria condizione e del contesto sociale in cui si è inseriti, l’elevazione culturale e la sua evoluzione.
Le avversità che Francesco Coluccia ha dovuto affrontare, nel corso della sua lunga ed intensa esperienza terrena, non hanno piegato la sua capacità di promozione culturale, civile, religiosa e spirituale. Grazie alla cultura religiosa ed alla ricerca teologica in cui Egli si è immerso, Don Francesco è quindi riuscito a trarre anche dalle prove più laceranti, l’energia e la caparbietà per proseguire il suo progetto culturale e pastorale.
La mia soddisfazione più grande, come suo nipote, è tuttora quella di incontrare persone che lo hanno conosciuto e frequentato assiduamente come sacerdote e come parroco e che lo ringraziano, ancora oggi, per aver insegnato loro a costruire una relazione personale con Dio.
Anche i documenti epistolari manoscritti qui di seguito presentati sono stati salvati da Don Francesco e si inseriscono quindi nella cultura della promozione della Resistenza civile e della capcità di ricostruire una civiltà dopo la distruzione della guerra e dei regimi totalitari.
Tali documenti manoscritti costituiscono l’epistolario autografo, sino ad ora inedito, redatto dal noto scienziato Filippo Bottazzi (1867-1941) ed indirizzato (nel periodo intercorrente tra il 1897 ed il 1922) all’Arciprete Pietrantonio Stasi (1839-1922), il quale ha svolto il servizio di Parroco presso la Comunità di Diso (dal 1868 al 1921).
Il carteggio manoscritto include anche alcune lettere inviate da Filippo Bottazzi alla propria madre Cecilia Bortone, per tramite della corrispondenza spedita a Pietrantonio Stasi.
Inoltre, l’epistolario comprende anche alcune comunicazioni inviate sempre da Bottazzi alla Maestra elementare Addolorata Stasi, cugina di Pitrantonio Stasi, inerenti al progetto dell’erigendo asilo infantile che l’Arciprete Stasi e la sua famiglia intendevano istituire in Diso a vantaggio della popolazione largamente analfabeta.
Si ritrovano quindi anche nei contenuti di questi documenti gli elementi culturali della Resistenza civile, di cui la popolazione cristiana italiana si è dimostrata capace e che sono al fondamento -secondo la ricostruzione storica dell’illustre Pietro Scoppola- della capacità di ricostruzione post bellica di cui la popolazione italiana è stata capace, nonché costituiscono fondamento di quella cultura della solidarietà e di quella cultura della non violenza che hanno infine consentito al Popolo italiano di avviarsi verso la democrazia, dopo il crollo della dittatura totalitaria, opponendosi anche nel triste ventennio al culto idolatrico ed inumano della violenza e della guerra, fondato sul delirio di onnipotenza.
Come si potrà riscontrare nel capitolo dedicato alla presentazione dell’epistolario autografo di Bottazzi e Stasi, le dodici lettere manoscritte risultano datate dal 1897 al 1922, e sono state spedite da Filippo Bottazzi dalle Città di Firenze, Genova, Napoli, all’indirizzo di Diso (Lecce).
Come sopra ho evidenziato, tra i documenti recuperati, studiati ed ordinati da Don Francesco, particolare rilievo per la storiografia locale rivestono anche le raccolte dei “Bollettini del Santuario della Madonna di Pompei di Castro Marina”, le cui notizie permettono di ricostruire la storia locale dell’epoca ottocentesca e del primo novecento (1898-1943). Sono quindi particolarmente lieto di riproporre qui di seguito un articolo pubblicato nel 2005 dall’«Eco del Santuario» di Castro Marina (Lecce) (di cui è direttore Don Piero Frisullo), mediante il quale il Prof. Filippo Cerfeda esprime un pubblico ringraziamento a Don Francesco Coluccia per aver recuperato ed ordinato, in particolare, le copie del “Bollettino del Santuario” che riproducono le notizie di fine Ottocento e inizio Novecento.
Ringrazio quindi il Prof. Filippo Cerfeda per la stima e l’affetto che ha sempre voluto esprimere per Don Francesco e gli riconosco la capacità di aver valorizzato anche altri documenti che mio Zio ha voluto mettere a disposizione delle sue ricerche storiche. Questi documenti attengono in particolare la storia della Comunità di Diso e la biografia dell’Arciprete Pietrantonio Stasi. Nelle pagine seguenti, precisamente nel Capitolo dedicato alla biografia dell’Arciprete Stasi, evidenzierò quindi tale contributo storiografico offerto da Don Francesco e valorizzato dal Prof. Cerfeda. Lo farò, mediante la citazione e la riproduzione di alcune pagine del libro «Civium Patroni» pubblicato dal caro amico Filippo nel 2001, e riproducendo la particolare dedica personale che, su tale testo, egli ha voluto offrire a Don Francesco.
Un caro e speciale ricordo è doveroso anche nei confronti di Mons. Vittorio Boccadamo, autore di molte e fondamentali ricerche storiche, che ho potuto citare nel presente lavoro e che contribuiscono a spiegare l’opera di Resistenza civile e di promozione culturale, a vantaggio del Popolo di Terra d’Otranto e della Comunità cristiana, a cui anche il suo confratello Mons. Francesco Coluccia ha saputo offrire il proprio concreto e felice contributo.
Filippo Cerfeda, «Grazie, Don Francesco», in «L’Eco del Santuario», Anno IX N° 1, 2005, Santuario Madonna del Rosario di Pompei, Castro, 2005.
[1] P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, Il Mulino, 1991, 1997, p. 106.
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